Si è tenuta all’Hotel Giò Jazz Area, curata da Pippo Cosenza, la proiezione del cortometraggio “Destrutturazione di un’immagine” di cui è protagonista Stefano Chiacchella, diretto dal critico d’arte Guido Buffoni che corso della serata, dopo i saluti della Sig.ra Valeria Guarducci e le musiche del pianista M.stro Umberto Bisceglia, ha parlato de “le categorie nell’Arte: appartenenza e riconoscibilità” , quaderno edito dallo Spazio 121.
Quanto riportiamo qui di seguito è l’intervento che Bruno Mohorovich, poeta e critico cinematografico, ha effettuato alla fine della proiezione.
“Il cortometraggio, che vede protagonista Stefano Chiacchella e la sua arte, lo si può ascrivere come “film sulla pittura” catalogabile come documentario d’arte, che usa una forma espressiva tra il racconto ed il saggio sui problemi della rappresentazione; per dirla con le parole del critico d’arte Hubert Damisch “ non c’è rappresentazione che di un’altra rappresentazione”. Laddove si riconosce la funzione teorica di un film di questo tipo.
Il documentario diventa film d’autore, verrebbe da dire opera d’arte concettuale, in quanto costruito provocatoriamente come insieme audiovisivo la cui funzione è di porre una interrogazione radicale sul senso della visione pittorica e della visione filmica; diventa il tentativo di fissare l’evento della pittura nel suo farsi/disfarsi e di riflettere sul modo d’essere dell’artista.
Chiacchella procede alla distruzione/destrutturazione di sue 3 opere ponendo nel corso dell’operazione alcuni interrogativi vitali. Se andiamo ad analizzare brevemente lo sviluppo filmico, vediamo che il montaggio è rigorosamente funzionalizzato più che al commento critico alla sollecitazione verbale/visiva che occupa il corto nella sua interezza; il montaggio visualizza senza soluzione di continuità gli elementi pittorici chiamati in causa. Lo stesso accade quando vengono citate opere di altri pittori.
Il film ha una struttura circolare chiusa/aperta; chiusa perché si apre con l’uomo di Magritte e si chiude con la citazione delle scatole di memoria manzoniana; aperta perché l’artista pone sia all’inizio che alla fine la medesima domanda: “Chi si ferma è perduto. Non vorrò mai ricopiare me stesso nell’arte come nella vita”, assumendo la frase, nei due diversi momenti in cui viene pronunciata, un ben diverso significato.
Tutta l’opera è attraversata da citazioni pittoriche, ai già citati Magritte (che ricorre spesso, sia nella rappresentazione dell’uomo con bombetta evocato dallo stesso Chiacchella, sia nella riproposizione di alcuni soggetti quali la mela, la pipa) e Piero Manzoni, si aggiungono Fontana, Pollock e Burri.
E non mancano neppure alcune citazioni cinematografiche facilmente individuabili negli strumenti che il nostro usa del destrutturare le sue tele:il rasoio, le forbici, il fuoco, la fiamma ossidrica…; le forbici (“Delitto perfetto” di Hitckock), il fuoco ( la filmografia in questo caso si spreca…da “La maledizione della casa degli Husher” a “Carrie”, tanto per citare due film emblematici); la fiamma ossidrica strumento di tortura ( memorabile la scena di “Roma città aperta”) che Stefano imbraccia alla fine ponendosi come James Bond tenendo lo strumento a mo di pistola. Ma non è solo la postura chiaramente beffarda ed ironica; 007 aveva la licenza di uccidere ed è quello che Chiacchella effettivamente fa: “uccide” una sua opera. Ed infine il rasoio, un inequivocabile rimando a “Un chien andalou” di Bunuel, nella sequenza più nota, quella dell’occhio tagliato. Il film di Bunuel s’ispira a diversi modelli circolanti nell’ambiente surrealista; si avvalse della collaborazione di Dalì che fu determinante per quel che riguarda la relazione fra il dispositivo pittorico e quello filmico.
Il motivo dell’occhio tagliato s’ispira ad un’immagine pittorica di Ernst per la copertina di “Repetition” di Paul Eluard e più avanti ripreso da Alan Clark un illustratore del fantastico piuttosto famoso oltreoceano; ha realizzato le copertine per autori come Stephen King o Ray Bradbury;
Perchè insisto tanto sul rasoio? Per due motivi, il primo che pone un quesito “ Si può trasmettere o distruggere un’opera d’arte?”; in effetti vediamo che nei tagli sulla tela, nello stesso tempo Stefano “crea” un’altra opera ( vedi Fontana); l’altro perché il rasoio evoca, sempre nell’ispirazione bunueliana, la negazione dello sguardo; Chiacchella intervenendo sul quadro, destrutturandolo, rappresenta il taglio quale simbolo di iniziazione, o di castrazione, sulla necessità di guardare oltre la superficie delle cose, per addentrarsi nei meandri dell’inconscio.
Ben diverso dall’altro famoso sguardo, quello di “Arancia meccanica” nella sequenza della “Cura Ludovico” cui viene sottoposto Alex fino alla nausea, costringere a vedere.
E Sempre in questa sequenza del rasoio sulla tela, non sfugge un’altra citazione, ben più lieve; la mano di Stefano entra nelle “ferite” inferte alla sua opera, l’accarezza ed ai più non può essere sfuggito il ricordo di quella scena innocua nel suo svolgersi ma molto sensuale presente in “Angelica marchesa degli angeli”, allorchè Joffrey de Peyrac conte di Tolosa dotato di un talento poetico incredibile ma zoppo e sfigurato, accarezza nel giardino il busto di una statua di donna, spogliandola della terra che la ricopre.
Abbiamo visto il corto di Stefano Chiacchella, dove l’autore parla di destrutturazione; per definizione vuol dire scomporre una struttura negli elementi che la costituiscono, sia al fine di smantellarla, sia per avviarne una riorganizzazione.
Ed avvia questo processo di dolorosa ricerca “sacrificando” l’opera che scompare per rinascere; il colare del colore sulla tela – richiamo a Pollock – evoca sì un rapporto sessuale ( altra citazione ai film di Joe d’Amato) ma racchiude in sé l’intento di chiudere con il passato per forgiare un nuovo presente, e questo può avvenire – non solo nell’arte – sporcandosi le mani, che fuor di metafora vuol dire che le mani, nella manipolazione della materia prima e poi di costruzione di artefatti, hanno com-preso le regole di composizione della materia e del proprio processo mentale ed operatorio di intervento sulla materia stessa. Stefano Chiacchella sottolinea qui che il lavoro dell’artista è, come una cerniera tra tecnica e linguaggio, tra natura e cultura,nel suo costruirsi una “seconda natura”.
E questa seconda natura egli rivela allorché si reinventa; raccoglie le ceneri delle sue 3 opere destrutturate e le definisce “fallimento d’artista”. Ma è vero fallimento?
Sono quelle, ceneri bibliche ( “polvere eri e polvere ritornerai”) o comunque – e voglio credere in questo – piuttosto un fertilizzante per tornare a creare ancora? Intanto, nel sottofinale, lo troviamo al pianoforte – Chiacchella è anche un notevole pianista e cultore di musica jazz – , una nuova vita ad intonare delle note che pongono un ulteriore interrogativo: che artista si vuole essere? Rifiutando la reinterpretazione di sé all’infinito, in questa sorta di resurrezione certamente quello che si tormenta alla ricerca dell’innovazione e che vuol dare una nuova visione di sé e del mondo.
E su tutto aleggia la triplice domanda che già nel secolo scorso aveva posto Gauguin in calce ad un suo celebre dipinto: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”